Sabato 21 settembre ci riverseremo nelle strade di Bologna per rifiutare l’uso sistematico della repressione delle forze dell’ordine. Alla violenza istituzionale noi opponiamo le nostre azioni dirette e la nostra immaginazione affinché in futuro essere realiste significhi prendersi cura degli altri e di un mondo in comune. Lo stato delle cose deve cambiare, e l’azione diretta ci permette di farlo.
Lo stato delle cose
Il 9 luglio 2024, a seguito di un’azione diretta contro il G7 a Bologna, 21 persone di Extinction Rebellion sono state identificate, denunciate e trattenute in Questura per otto ore senza cibo e acqua. Lì una di loro è stata fatta denudare per essere sottoposta ad una procedura di perquisizione, un trattamento umiliante e intimidatorio. Dopo l’azione il resto delle attiviste coinvolte ha ricevuto fogli di via e avvisi orali di pericolosità sociale. Questo episodio rappresenta soltanto uno dei tanti atti repressivi con cui le istituzioni hanno cercato di intimidire movimenti e collettivi politici bolognesi negli ultimi mesi. Durante uno sgombero, lo scorso 6 dicembre, una manifestante è stata colpita in mezzo alle gambe da un poliziotto, mentre altri 23 militanti sono stati raggiunti da misure cautelari per aver resistito alla violenza della Polizia. Il 17 ottobre, durante il violento sgombero dell’ex istituto Santa Giuliana, occupato per lottare per il diritto di tutte ad una casa, una attivista è stata violentemente colpita alla testa e portata per questo in pronto soccorso. Per i fatti di quel giorno sono state emanate diverse misure cautelari e per la denuncia della ragazza è stata chiesta l’archiviazione, motivandola con l’impossibilità di risalire all’identità dell’agente a cui era riferita, nonostante lei stessa abbia più volte inutilmente assicurato di essere in grado di riconoscere il colpevole. A febbraio è stato il momento delle manganellate contro i Giovani Palestinesi, che protestavano contro la censura e la narrazione filosionista della RAI; a marzo, durante l’apertura dell’anno accademico, mentre alcune persone tentavano di porre il rettore, la governance e la ministra Bernini davanti alle proprie responsabilità nel genocidio in corso a Gaza, fuori dal teatro Manzoni la Polizia caricava la folla presente: l’ennesimo episodio repressivo in un contesto universitario, in cui le mozioni presentate al Senato accademico per l’interruzione dei rapporti con le istituzioni israeliane sono stata rigettate e strumentalizzate. Ma la macchina della repressione non si è mai fermata: i fallimentari tentativi di sgombero del presidio in difesa del Parco Don Bosco hanno dimostrato che la Giunta di quella che si definisce la “città più progressista d’Italia” non esita a ricorrere ai manganelli per realizzare i suoi inadeguati piani di sviluppo. Ovviamente, quando i manganelli non bastano le autorità ricorrono a denunce pretestuose, fogli di via e misure cautelari di ogni tipo. A distanza di mesi, le persone, anche minori, che si sono attivate per salvare il Parco continuano a ricevere avvisi di garanzia e le attiviste di Ultima Generazione, quando entrano in azione, vengono ormai arrestate in direttissima. Non ci sfugge come questa repressione preventiva, con l’annesso arsenale di burocrazia della sicurezza, miri non solo a intimidire e a indebolire le lotte, ma a pressare economicamente le militanti, costringendole a sostenere le spese di ricorsi e supporto legale. E non ci sfugge neanche come la violenza delle Forze dell’Ordine, fuori e dentro le Questure, colpisca in modo specifico le attiviste socializzate donne, configurandosi in innumerevoli casi come vera e propria violenza di genere.
Siamo consapevoli che la violenza delle Forze dell’Ordine fa parte di un progetto repressivo più ampio, che trova il suo fulcro nel nuovo “pacchetto sicurezza” presentato dai ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto. Questo disegno di legge, infatti, trasforma il blocco stradale in un reato punibile fino a 2 anni di carcere, amplia la classificazione di “azione terroristica” per includere le proteste nonviolente ed estende l’utilizzo del Daspo Urbano e del concetto di “lesioni” verso gli operatori di Polizia. Inoltre, vengono punite le proteste nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) e nelle carceri, criminalizzando la battitura sulle sbarre e creando il “delitto di rivolta penitenziaria” – provvedimenti sadici e crudeli di fronte alla situazione in cui versano i detenuti, costretti in condizioni inumane che sono la ragione evidente del picco di suicidi di Stato a cui stiamo assistendo. Nel disegno di legge si arriva persino a proporre la revoca della cittadinanza a seguito di una condanna per “reati con finalità di terrorismo”. E tutto questo mentre l’Italia resta uno degli ultimi Paesi in Europa a non aver ancora dotato le forze di Polizia di misure di identificazione – come i codici identificativi alfanumerici – nonostante la risoluzione del 2012 del Parlamento europeo in cui si invitano gli Stati membri ad agire in tal senso, e mentre due ddl metteno in dubbio il reato di tortura, uno modificandone la legge e l’altro abrogandola.
Chi ha paura dell’immaginazione?
Per tutte queste ragioni dobbiamo difendere il nostro diritto al dissenso. Dobbiamo difendere il nostro diritto di lottare per la giustizia climatica opponendoci a infrastrutture inutili e dannose per l’ambiente come la TAV, il Passante di Mezzo e il Ponte sullo Stretto di Messina. Dobbiamo difendere il nostro diritto di lottare per la giustizia sociale, in un paese in cui l’1% più ricco guadagna 84 volte di più del 20% più povero. Dobbiamo difendere il nostro diritto a scioperare, come hanno fatto i lavoratori di Ferrovie dello Stato e Rete Ferroviaria Italiana limitati nel loro diritto dal governo e dalla “commissione di garanzia scioperi”. Dobbiamo difendere il nostro diritto al dissenso contro la complicità dello stato e delle aziende italiane nel genocidio del popolo palestinese, perpetrato dalle forze armate israeliane. Dobbiamo difendere il nostro diritto a sostenere che investire in armi in un paese in cui il sistema sanitario è al collasso, le catastrofi ambientali sono all’ordine del giorno e scuola ed università sono allo sfacelo, non è solo miope, ma è anche criminale. Dobbiamo difendere il nostro diritto a protestare contro le speculazioni immobiliari che ci privano di alloggi e spazi comuni, il ricatto dei datori di lavoro, lo sfruttamento di lavoratori e lavoratrici migranti e la violenza di genere, che si manifesta anche attraverso la faccia legale di provvedimenti che minano il diritto all’aborto e all’autodeterminazione di corpi e soggettività.
Durante l’assemblea del 25 luglio, ci siamo dette che il nostro tentativo di dialogo con le istituzioni è definitivamente fallito, perché in realtà siamo sempre state sole al tavolo delle trattative. È per questo che abbiamo deciso di agire senza bisogno della loro mediazione, riversandoci per le strade e le piazze di Bologna con le nostre idee e le nostre azioni. Del resto, stato e capitalismo sono soltanto forme di organizzazione delle relazioni sociali. Forme piuttosto fragili, visto che hanno bisogno di tutta questa violenza per tirare a campare. Chi le sfrutta lo sa e, infatti, non crede più alle promesse sul futuro che continua a venderci: è per questo che si arma e costruisce muri. Hanno paura della nostra consapevolezza. E noi abbiamo deciso di sconfinare usando la nostra capacità immaginativa e le nostre energie creative. È proprio per immaginare e resistere che nasce questa Rete Bolognese contro la Repressione: chi ne fa parte lotta per realizzare nuovi modi di vivere, nuovi spazi comuni e nuove relazioni, al di là dei confini imposti da eterocisnormatività, patriarcato, capitalismo del debito, nazionalismi vari e beceri razzismi. La manifestazione del 21 settembre non è la fine di un percorso, ma piuttosto il momento di convergenza delle nostre lotte distinte e solidali.
La repressione è uno strumento che si alimenta delle gerarchie del sistema classista, che colpisce chi sta ai margini in modo ancora più feroce. Vogliamo costruire una lotta in cui chiunque possa unirsi sentendosi più al sicuro, senza il timore di ritorsioni, di essere isolate, picchiate, molestate o incarcerate. La repressione si alimenta delle divisioni e della paura, creando l’illusione che il problema riguardi solo chi si espone maggiormente, come le attiviste. Ma la verità è che siamo tutte coinvolte. La repressione è un problema collettivo e la resistenza deve essere una risposta collettiva.
Il futuro è nostro. Riprendiamocelo.
Hanno sottoscritto (in aggiornamento):
NUDM
Ultima Generazione
Circolo C. Berneri
Colonna Solidale Autogestita
Partito dei CARC
Potere al Popolo
Link Bologna Studenti Indipendenti
FIR – La Voce Delle Lotte
Mediterranea Saving Humans
PLAT
CUA
LÀBAS
I giovani palestinesi
Vag61